Ogni immagine che vediamo sullo schermo, da quella più luminosa a quella più cupa, è il risultato di un delicato equilibrio di luce. Questo equilibrio è chiamato esposizione[6]: è la quantità totale[16] di luce che colpisce il sensore[13] della macchina da presa[4] per creare un’immagine. Se la luce è troppa, l’immagine risulta “sovraesposta” e appare bruciata, perdendo dettagli nelle aree più chiare. Se è troppo poca, risulta “sottoesposta“, diventando scura e priva di dettagli nelle ombre.
Per controllare e bilanciare con precisione questa luce, il D.O.P utilizza il triangolo dell’esposizione[1], un concetto che lega tre parametri fondamentali:
- Diaframma[10] (Aperture)
Il diaframma può essere immaginato come la pupilla dell’occhio della macchina da presa. È un’apertura variabile all’interno dell’obiettivo che si allarga o si restringe per regolare la quantità di luce in entrata. La sua ampiezza è misurata in f-stop[17] (es. f/1.4, f/2.8, f/8), dove un numero basso indica un’apertura ampia (più luce) e un numero alto un’apertura stretta (meno luce). Il suo principale effetto creativo è la gestione della profondità di campo[2], ovvero l’estensione della zona di nitidezza[11] all’interno dell’inquadratura[7]. Definisce quanta parte della scena, dal primo piano[8] allo sfondo, appare a fuoco:- Apertura ampia (f-stop basso, es. f/1.4) riduce la profondità di campo. Questo crea il famoso sfondo sfocato (effetto bokeh[18]), che permette di isolare il soggetto[14] principale, guidando l’attenzione dello spettatore su un volto o un dettaglio[15] importante.
- Apertura stretta (f-stop alto, es. f/16) aumenta la profondità di campo. In questo caso, gran parte della scena rimane a fuoco, permettendo di mostrare con la stessa chiarezza sia i personaggi in primo piano che l’ambiente che li circonda, creando una connessione visiva tra di loro.
- Tempo di scatto[5] (Shutter Speed)
Un film non è altro che una rapida successione di immagini fisse, chiamate fotogrammi. Di solito, ne vediamo 24 ogni secondo. Il tempo di scatto indica la durata esatta in cui ogni singolo fotogramma viene esposto alla luce.
Nel cinema, più che di tempo, si parla di angolo di otturatore[3]. Le cineprese professionali usano un otturatore a disco rotante che gira davanti al sensore. L’angolo definisce la grandezza della fessura del disco, determinando per quanto tempo la luce passa. Lo standard è un angolo di 180 gradi, che produce una sfocatura di movimento (motion blur[12]) percepita dal nostro occhio come naturale e fluida. Alterare questo parametro è una scelta stilistica deliberata:- Tempo rapido (o angolo di otturatore stretto) riduce il motion blur. L’azione risulta estremamente nitida, quasi scattosa. Questo effetto viene spesso usato nelle scene di combattimento o di guerra per trasmettere una sensazione di caos, crudezza e realismo brutale.
- Tempo lento (o angolo di otturatore ampio) aumenta il motion blur. I movimenti appaiono più fluidi e sfumati, generando un effetto etereo, onirico o di disorientamento, perfetto per rappresentare sogni, ricordi o stati mentali alterati.
- ISO[19]
L’ultimo vertice del triangolo è la sensibilità del sensore alla luce, un valore misurato in ISO (acronimo di International Organization for Standardization). A differenza della pellicola, la cui sensibilità era fissa, nei sensori digitali questo parametro può essere amplificato elettronicamente. Ogni sensore ha un valore ISO “nativo”, a cui offre la massima qualità d’immagine.
Aumentare gli ISO è come “alzare il volume” del segnale luminoso: permette di girare in condizioni di scarsa illuminazione, ma con un compromesso:- ISO bassi (es. 100, 200) producono immagini pulite, nitide e ricche di dettagli. Sono la scelta ideale quando la luce è abbondante o controllata in studio.
- ISO alti (es. 1600, 3200) permettono di riprendere quasi al buio, ma introducono nell’immagine un disturbo visivo chiamato rumore digitale, simile alla grana della vecchia pellicola. Un tempo considerato un difetto, oggi questo effetto viene spesso usato artisticamente per dare un’impronta di realismo crudo e documentaristico.
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Il modello concettuale che descrive la relazione tra i tre parametri fondamentali che controllano l'esposizione: diaframma (quanta luce entra), tempo di scatto (per quanto tempo entra) e ISO (la sensibilità del sensore alla luce).
L'area, misurata in distanza (da vicino a lontano), all'interno della quale gli oggetti in una scena appaiono nitidi e a fuoco. Una profondità di campo ridotta (tipica del Full Frame o di un diaframma molto aperto) isola il soggetto a fuoco dallo sfondo sfocato (bokeh). Una profondità di campo ampia mantiene a fuoco sia il soggetto che lo sfondo.
(shutter angle) Il termine cinematografico per il tempo di scatto. Nelle cineprese, un otturatore a disco rotante gira davanti al sensore. L'angolo (misurato in gradi) definisce l'ampiezza della fessura del disco. Lo standard è 180 gradi, che produce un motion blur percepito come naturale. Un angolo stretto (es. 45°) crea un'azione scattosa; un angolo ampio (es. 270°) crea un effetto etereo.
macchina da presa: apparecchiatura utilizzata per registrare le immagini in un film o in una produzione video. Essa comprende il corpo principale della macchina, l’obiettivo, i meccanismi di registrazione e altri accessori necessari per catturare le immagini.
(shutter speed) Indica la durata esatta in cui ogni singolo fotogramma (dei 24 al secondo) viene esposto alla luce. Nel cinema, si preferisce usare il termine angolo di otturatore.





